Si accende la lucina rossa. Il timer inizia a scandire il passare dei secondi. Non vengo bene nelle foto, figuriamoci nei video: si vede lontano un miglio che sono in imbarazzo. Ecco, sto pensando troppo e i secondi scorrono: il video inizierà con un silenzio imbarazzante. Inizio a leggere la storia e il mio accento piemontese viene fuori fin da subito. “Dove hai messo le cuffie, tra cinque minuti inizia la videoconferenza”: mio marito spunta dalla stanza vicina e la sua faccia entra nell’inquadratura. Tutto da rifare. Meglio così: non si poteva sentire quell’accento piemontese.

 

Rec.  “Ciao ragazzi”.

Cancello. Macché ragazzi, ormai sono quasi tutti sulla quarantina, tutti uomini e donne, altro che ragazzi. Sempre con questa storia di infantilizzare la disabilità.

Rec. “Ciao a tutti come state?”

Cancello. Ma che domande sono? Come vuoi che stiano. Sono a casa da due mesi, senza poter uscire se non per gravi motivi; tocca sperare in un’emergenza per poter mettere il naso fuori di casa.

Rec. “Ciao a tutti. Oggi vi voglio raccontare una storia…”

 

Quattro facce sullo schermo. Chiara, il suo volto fermo da cinque minuti con lo sguardo vago e la bocca semi aperta in un’espressione buffa: chissà se ci sta sentendo. Paola e la bella libreria dietro di lei, zeppa di libri e soprammobili: chissà se starebbe bene una libreria così scura anche a casa mia. Diego in cucina: il capo in cucina, col cartone di latte sullo sfondo, perde un po’ della sua immagine da duro. Sara e la messa in piega perfetta: chissà come fa ad essere impeccabile anche in quarantena. Ed io: ho inquadrato l’angolo migliore della casa, quello più pulito e ordinato, e meno male che non possono vedere i pantaloni della tuta.

 

Chi l’avrebbe mai detto che queste sarebbero state tre immagini della professionalità educativa. Ma facciamo un passo indietro.

Sono due mesi che l’attività educativa si è trasformata; in verità molti aspetti della vita quotidiana si sono trasformati. La pandemia ha cambiato i ritmi di vita, ha chiesto a tutta la popolazione di modificare abitudini e stili di vita, faticosamente costruiti negli anni; abbiamo dovuto creare o riscoprire alcune routine (la video chiamata delle cinque, il pranzo tutti insieme) e costruire nuovi riti (tutti ad incitare i vicini dal balcone) per affrontare questa emergenza e per sentirci un po’ più sicuri, nonostante l’incertezza che ci circonda. Qualcosa di piccolissimo ed invisibile, il coronavirus, minaccia noi e i nostri cari e la cosa che più mette alla prova è che noi stessi possiamo diventare la causa di malattia e sofferenza per le persone a cui vogliamo bene. Quindi: distanziamento sociale. Queste due parole sono diventate l’imperativo di questo periodo.

Ma quando la tua professione è basata sulla relazione, il distanziamento sociale mette in crisi tutto il sistema; pensi che non ci possano essere strade alternative e non riesci ad immaginare un lavoro che non passi dal contatto fisico, dal guardarsi occhi negli occhi, dal parlarsi vicini. Poi risale, dal profondo della nostra professionalità, quella caratteristica sui cui tentiamo tanto di far leva nelle persone con le quali lavoriamo: la resilienza. La capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, come direbbe la psicologia o la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, come direbbe la fisica.

Beh un po’ dobbiamo ammettere che ci siamo rotti, ma questo senso di impotenza ci ha spinto ad andare oltre e, attraverso la creatività che il nostro mestiere tanto richiede, siamo riusciti a creare qualcosa di nuovo. Abbiamo riformulato il Servizio. Ci siamo ritrovati a costruire video, tutorial, a fare videochiamate ed attività in streaming, le visite domiciliari al telefono, gli incontri attraverso le call conference: abbiamo creato un servizio a distanza. E tutto questo perché mai come oggi, in questo tempo di paura del contagio, abbiamo compreso l’importanza della vicinanza, anche senza prossimità.

“La persona al centro”: è una frase che sentiamo spesso e che magari abbiamo detto anche noi a riguardo dei nostri Servizi. Ora più che mai, per me, le persone non sono al centro: non sono al Centro letteralmente, perché i Centri diurni sono chiusi da quasi due mesi e non sono al centro perché al centro c’è la relazione, l’interdipendenza, il legame. E l’essere prossimi fisicamente è solo uno degli elementi che rende possibile l’essere vicini.

Al centro non c’è la persona, i suoi desideri e le sue necessità; al centro c’è la relazione, la possibilità di poter costruire quella rete che ci permette di vivere la dimensione del legame, che ci fa sentire vivi, esistenti.

La parola “Esistenza” significa etimologicamente stare da, perché deriva dal composto latino ēx + sistentia, che vuol dire avere l’essere da un altro, esterno a sé; l’esistenza quindi esiste solo in quanto è subordinata ad un altro essere.

Al Centro c’è il legame ed è per questo che ognuno, dietro al suo dispositivo telematico, è connesso e non solo alla linea internet, ma anche alle altre persone; le sostiene, le incoraggia, tiene loro compagnia e riceve altrettanto da chi risponde all’altro capo del filo.

Per questo, anche se a volte con imbarazzo e reticenza, registriamo storie, facciamo quiz canori, mandiamo ricette e dipingiamo con il caffè anche a chilometri di distanza. Perché non è la distanza chilometrica che può fermare l’agire educativo ma la distanza relazionale: e quella è nostro dovere tenerla viva, sempre.

 

Maura Croce