Due metri e settanta è l’altezza minima per avere l’abitabilità di una casa in Italia. In un’estate calda i termometri negli Stati Uniti possono arrivare a segnare i 90 gradi Fahrenheit. Otto metri e novantacinque è il record di salto in lungo di Mike Powell.
E via dicendo.
Si potrebbe quindi dire che ogni manifestazione umana si è dotata di un metodo di misurazione che misura e dà sostanza a ciò che accade. Come si sa, anche il Coronavirus ha stabilito una nuova unità: un metro di distanza tra le persone è il minimo per rimanere in sicurezza dal contagio. Il metro è il nuovo spazio codificato per rapportarsi con gli altri.
Quando si tratta però di trovare un metodo di misurazione per comprendere un intervento sociale a beneficio di una comunità, la complessità aumenta . L’unità di misura in questi casi deve anche rispecchiare il valore che un determinato intervento ha portato e certamente non si può fare appello ad una scala di misurazione già standardizzata.
Ma il valore per chi? E questo valore, da dove arriva? E come faccio a misurarlo?
Una piccola precisazione. Se vi aspettate un articolo sulle metodologie della misurazione dell’impatto sociale di un intervento, non è questo il caso. Meritano una trattazione a parte. Questa riflessione è un tentativo di osservare in modo cosciente la realtà e di comprendere realmente quello che accade quando non possiamo appellarci ad un’unità di misura. Quando davanti a noi si manifestano qualità relazionali e norme sociali, ed è nostro dovere, innanzitutto, riconoscerle e comprendere.
Partiamo dall’inizio. Nell’autunno del 2019 Milena, operatrice del Consorzio Coesa, ha dato il via ad un’azione di mappatura territoriale all’interno del quartiere di via Allende a Orbassano (1). Nello stesso quartiere, Coesa ha in gestione un Centro Diurno per disabili collocato in una casetta immersa nel parco in cui operano gli educatori che si sono subito mossi per aiutare Milena. Il suo scopo, in breve, era identificare i bisogni e le risorse del territorio, per attivare esperienze di prossimità.
Con base al Centro, Milena ha iniziato ad esplorare il quartiere, a capirne a poco a poco la tessitura, a parlare e riconoscere le persone, a indagare la loro relazione con lo spazio e con gli altri abitanti, a scoprire le loro storie. Ha intervistato le associazioni presenti e si è coordinata con l’amministrazione comunale condividendo progressivamente l’andamento del suo lavoro. E ha fatto delle scoperte bellissime.
Il destino dei progetti è indissolubilmente legato al contesto in cui operano.
Orbassano è un comune della prima cintura dell’area metropolitana di Torino e vi risiedono poco più di 23.000 abitanti. Il quartiere di via Allende è un luogo tranquillo, immerso nel verde, prevalentemente residenziale, costituito da abitazioni costruite negli anni ottanta, in cui si erano trasferiti genitori con figli piccoli, alla ricerca di una zona tranquilla in cui fare crescere la loro famiglia.
L’attrazione della città ha fatto trasferire i giovani che, oramai cresciuti, se ne sono andati, inseguendo opportunità di studio e di lavoro, spesso iniziando una nuova vita altrove. Rimangono quindi i nonni, e i nipoti che vengono a fare loro visita ogni tanto. Uno spazio progressivamente svuotato, dove la popolazione è complessivamente invecchiata senza una rinnovata presenza della fascia attiva. Il Centro diurno, collocato al centro del quartiere, è uno spazio riservato agli utenti che vengono dall’esterno, una piccola oasi di welfare al limite del parco, con poche relazioni dirette con gli abitanti. Un posto calmo dove far passare delle ore serene ai suoi ospiti.
O almeno così può sembrare a prima vista.
Il semplice quadro demografico di un territorio, la storia legata agli insediamenti abitativi, non sono altro che un insieme di punti di riferimento oggettivi, insufficienti come metro per comprendere il valore di un possibile intervento sociale. Milena, infatti, ha scoperto molto di più. Ha da subito sentito che il quartiere era aperto, pronto a rispondere ai suoi stimoli. Che c’era uno “scambio di respiri”, a prima vista anomalo, tra gli abitanti e il Centro Diurno che meritava di essere approfondito. E si è messa in ascolto.
Il destino dei progetti è indissolubilmente legato al contesto relazionale in cui operano.
La struttura del Centro ha una storia parallela. Poco dopo essersi trasferiti nel quartiere negli anni ottanta, i genitori si sono accorti di avere bisogni simili – e la possibilità di mettere le loro risorse in comune. Hanno così avuto l’idea di formare una piccola associazione, un comitato di quartiere che organizza feste (come quartieri in gioco – una sorta di giochi senza frontiere tra le squadre dei vari quartieri vicini) e attività aggregative dedicate ai bambini e alle famiglie. L’amministrazione comunale ha appoggiato l’idea e ha fatto costruire nel 2000 l’edificio dove oggi si trova il Centro Diurno. Da lì hanno cominciato a svolgersi incontri e scambi, nuove attività, nuove sinergie e un nuovo nome per l’associazione: Quelli del Quetzal.
I quetzal sono uccelli originari del Messico, che non possono vivere in cattività. Se rinchiusi in gabbia, si lasciano morire.
Per dieci anni questa è stata la Casa del Quartiere. Un punto di riferimento per tutti, un luogo dove l’appartenenza e la percezione della similarità con gli altri era chiara e l’interdipendenza era riconosciuta, offrendo o facendo per altri ciò che ci si aspetta da loro. Dove era evidente la sensazione di appartenenza a una struttura pienamente affidabile. Fatta dagli altri, da tutti.
Tuttavia i bisogni con il tempo cambiano. La Casa del Quartiere oggi non c’è più, ma la sua presenza si sente ancora. I bambini di allora si ricordano i giochi che facevano e mantengono salda questa appartenenza. Gli allora genitori, ora nonni, vivono ancora nel quartiere. Lo spirito è rimasto. L’aria del luogo si respira ancora tra le strade.
Il destino dei progetti è indissolubilmente legato al contesto relazionale dei luoghi in cui operano.
I luoghi si profilano come realtà spaziali investite dei valori emotivi, delle aspettative, delle esperienze e delle tradizioni che gli abitanti attribuiscono loro, e che scaturiscono da un lungo processo storico-culturale.
Abbiamo capito che il nostro metro per misurare questo intervento sociale è il luogo inteso come uno spazio fisico (e virtuale) dove le relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi che partono dai singoli individui che lo abitano, lo frequentano (2).
E adesso?
Ora il Centro diurno può finalmente riappropriarsi della sua identità. Non più l’oasi di welfare ma un luogo di quartiere. A partire dall’azione di Milena si è creato un gruppo di lavoro ed è stato organizzato un primo evento coinvolgendo gli abitanti, a cui ne sono susseguiti altri.
I cittadini si stanno mettendo a disposizione per fare dei laboratori con i ragazzi del Centro. La gente viene, capisce, respira il Centro e vede i locali, ricorda le attività che venivano fatte lì. A volte hanno già incrociato i ragazzi che lo frequentano e si riconoscono, si parlano.
Sono state raccolte delle fotografie per fare una mostra al Centro che ha visto i ragazzi e gli abitanti coinvolti nella scelta delle foto da esporre, nella costruzione del fil rouge dell’esposizione e nella cura della parte grafica con realizzazione di cornici per l’esposizione.
Si sta creando un collegamento tra il quartiere e il Centro, che forse già c’era nell’aria, ma ora è più concreto, più tangibile, più luogo.
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Si ringraziano Carlo Marrone e Milena Vincon per le loro testimonianza
(1) il progetto E.S.C.I. – WECARE è co-finanziato con il POR – FSE 2014-2020 e realizzato da Consorzio Coesa in partnership con le cooperative Esserci, Madiba e Il Triciclo (link)
(2) Questa è la definizione che Paolo Venturi e Falviano Zandonai propongono in “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” (link)